Non mi sono mai sottratto alla meditazione sul valore del silenzio. Ho anche scritto su questo, perché sinceramente penso che spesso ci siano delle valutazioni molto superficiali sul tema, che ne sviliscono quindi il valore reale. Ora, l’occasione di confrontarmi su questo delicato argomento con l’ausilio di un pensatore straordinario come Divo Barsotti mi pone in una situazione un poco strana: da una parte il materiale è eccezionalmente profondo, dall’altra vengo spaventato dalla mia inadeguatezza. Proverò a procedere confidando nell’assistenza della Provvidenza, perché credo che il tema del silenzio sia un tema centrale nella nostra riflessione e anche in quella di Divo Barsotti ed è un tema che ha una grande importanza nella liturgia.
C’è un rapporto tra silenzio e liturgia? Certo, ne sentiamo parlare ogni tanto, ma non troppo si è approfondito, o almeno non quanto si dovrebbe. Nella Sacrosanctum Concilium, dopo aver raccomandato di curare le acclamazioni, le risposte, il canto dei salmi etc. si dice “Si osservi anche, a tempo debito, il sacro silenzio” (30). Si badi bene che non si dice di osservare il silenzio, ma il sacro silenzio, e in questa distinzione c’è un mondo di differenza. C’è silenzio e silenzio e non dovremmo mai dimenticare questo aspetto.
Ora io credo che la riflessione di Barsotti, anche qui, è veramente importante. Egli non contrappone il silenzio al parlato o al cantato, ma lo concepisce come momento assoluto della liturgia. Una frase della tradizione cristiana dice Tibi silentium laus, ti è lode il silenzio. Forse in questo senso possiamo recuperare Dionigi l’Aeropagita e Agostino nel senso della loro teologia negativa. Quest’ultimo nel suo in un suo sermone (52, 16) così ci ammonisce:
“Orsù, fratelli, prestatemi attenzione con tutta la vostra mente. Vedete prima che cosa prometto, se mai possa trovarlo nelle creature, perché il Creatore ci trascende del tutto. Ma potrebbe darsi che qualcuno di noi, il cui spirito venisse abbagliato dallo splendore della verità come da un lampo, potrebbe ripetere quella frase: Nel rapimento del mio spirito io ho detto. Che cosa hai detto nel rapimento del tuo spirito? Sono stato gettato lontano dai tuoi occhi. Orbene, mi pare che colui il quale disse ciò aveva innalzato la propria anima verso Dio, aveva sollevato la propria anima al di sopra di se stesso, poiché ogni giorno gli veniva detto: Dov'è il tuo Dio? e con una specie di contatto spirituale era giunto alla luce immutabile ma, per la debolezza della vista, non era stato in grado di sopportarla ed era ricaduto nella sua - diciamo così - infermità e fiacchezza. Si era paragonato con essa e s'era accorto che la vista del proprio spirito non poteva ancora adattarsi alla luce della sapienza di Dio. Ma poiché aveva fatto ciò in un rapimento dello spirito essendo stato trascinato fuori dei sensi del corpo e innalzato verso Dio, appena fu in certo qual modo ricondotto dalla divinità all'umanità, disse: "Nel rapimento del mio spirito io ho detto. Nel rapimento ho visto un non so che, ma non ho potuto sopportarlo a lungo, e dal corpo che appesantisce l'anima, restituito alle mie membra mortali e ai numerosi pensieri dei mortali, ho detto: Sono stato gettato lontano dai tuoi occhi. Tu sei di gran lunga al di sopra di me, io sono di gran lunga al di sotto di te". Che cosa dunque diremo di Dio, fratelli? Se infatti ciò che vuoi dire lo hai capito, non è Dio. Se sei stato capace di capirlo, hai compreso una realtà diversa da quella di Dio. Se ti pare d'essere stato capace di comprenderlo, ti sei ingannato a causa della tua immaginazione. Se dunque lo hai compreso, Dio non è così; se invece è così, non lo hai compreso. Perché dunque vuoi parlare di ciò che non hai potuto comprendere?“
Del resto, questo tema viene ripreso da Dante Alighieri nel finale della sua Divina Commedia, quando confessa che gli mancò la capacità di descrivere Dio per la grandezza e l’immensità dell’impresa. E non era anche quanto in fondo affermava san Tommaso d’Aquino, quando confessava ad un suo discepolo che, in confronto a quanto aveva visto in una visione mistica, quanto aveva scritto era nulla? E parliamo di quella che è probabilmente la più grande mente del pensiero cattolico. Ecco perché dobbiamo risolvere una apparente dicotomia tra liturgia e teologia in favore della prima. Il professore americano David W. Fagerberg (estimatore di don Barsotti) identifica la teologia liturgica come “theologia prima” non a caso. In una conversazione con me per un giornale cattolico, il professor Fagerberg spiega cosa intende per teologia liturgica come “theologia prima”:
“Pensa a come usiamo normalmente una tale espressione: una persona nel suo ufficio legge libri, riflette e scrive su un argomento specifico. Se quell'argomento è la Bibbia, lo chiamiamo teologo biblico; se si tratta di un'epoca storica, lo chiamiamo teologo storico, e così via. Questo non è ciò che intendo. Non intendo che la teologia liturgica sia un singolo teologo che riflette sulla liturgia. Quello che intendo è che il teologo principale nella Chiesa è l'assemblea liturgica. Theologia prima si riferisce alla teologia che può essere trovata nella struttura del rito – nella sua lex orandi (legge della preghiera). La teologia primaria riconosce che questa legge della preghiera stabilisce la legge della fede della Chiesa. Diciamolo così: Dio si presenta alla comunità in un incontro liturgico, e la comunità si adatta a questo incontro. Facendo ciò, diventano anime teologiche. Solo dopo che Dio ha plasmato la comunità nell'incontro liturgico, e l'adattamento teologico si è consolidato in una forma rituale, lo studioso di liturgia può cercare le impronte di Dio nel rituale”.
Ma torniamo più specificamente al tema del silenzio. In un libro ristampato da San Paolo editore qualche tempo fa, Meditazioni sull’Apocalisse, Barsotti commenta un passaggio tratto dal sesto capitolo del libro dell’Apocalisse, passaggio in cui si dice che all’apertura del settimo sigillo “si fece silenzio nel cielo per quasi mezz’ora”. Ora, da questa breve frase, Barsotti tira fuori una meditazione straordinaria:
“Si fece silenzio nel cielo per quasi mezz’ora. E’ il silenzio della liturgia. Ma soprattutto il silenzio della liturgia quando essa anticipa in qualche modo questa venuta. La Messa non è soltanto la presenza attuale del Mistero della croce e del Mistero della redenzione; è anche l’anticipazione, reale, non solamente profetica, della fine di tutto nella presenza del Cristo. Ogni qualvolta si dice la Messa il mondo finisce; tutta la creazione in qualche modo si travasa nel Cristo, e non è che Lui. Ma se la Messa anticipa questa fine, l’anticipa precisamente nel silenzio. Proprio quando avviene la consacrazione, nel momento più solenne, si fa silenzio: la solennità è scandita dal silenzio. Può acclamare, può cantare prima, ma quando Egli viene l’uomo tace. Lo diceva Giobbe: ‘prima io ti conoscevo per aver sentito parlare di te, ma ora sei qui, mi prostro nella polvere e taccio’. L’uomo può interrogare Dio quando Dio è lontano, può competere con Lui, può chiamarlo in giudizio – come faceva Giobbe – ma se Dio si fa presente, l’uomo non ha più ragioni da opporre, non ha più da chiedere spiegazioni, non può che adorare. Cade nell’uomo ogni volontà di competere, ogni ragione da opporre” (p. 126).
Barsotti, in questa bellissima meditazione, fa riferimento allo svolgimento della consacrazione prima della riforma liturgica successiva al Concilio Vaticano II. Ora le parole della consacrazione vengono pronunciate a voce alta, per l’ascolto di tutti. Ma credo che questa meditazione sia utile anche per la Messa celebrata secondo il Messale ordinario, o di Paolo VI.
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