Non volevo entrare in quella chiesa. Il giorno oramai volgeva a quell’ora che preclude al lento declino della luce per fare posto all’oscurità. L’oscurità...che profondo mistero c’è in questa parola. Veniamo da una oscurità e ripombiamo in una oscurità, ma la fede ci dice che in entrambi i casi questa oscurità rifulge di luce. Ma questa luce, “abbagliati” come siamo dall’oscurità, non la vediamo. Il termine in sé stesso è interessante e deriva dal latino (ob-scurus) che significa “davanti a ciò che non esiste”. Quindi quando ci immergiamo nell’oscurità, in un certo senso, viviamo una non esistenza.
Stavo dicendo: non volevo entrare in quella chiesa, in una data città, in una data diocesi, ma poi ci sono entrato. Le chiese per molti di noi sono comunque luoghi familiari e anche se la stanchezza dello spirito mi trascinava altrove, qualche baluginio di volontà spirituale mi ha fatto caracollare dentro. Mentre mi aggiravo tra l’atrio e l’entrata, ho cominciato a percepire suoni per me familiari di canti e preghiere. Entrato, ho potuto costatare che in effetti era in svolgimento una celebrazione liturgica, in uno stile oramai consueto nelle parrocchie, con una musica ed uno stile celebrativo che rimandano inesorabilmente all’”oggi”. È in parte comprensibile, perché noi viviamo tutti nell’oggi, nel presente. Mi veniva da riflettere sul fatto che lo sforzo compiuto nel senso già descritto, sembrava voler portare a noi il soprannaturale, sembrava volerlo incarnare nel momento, renderlo attuale. Ripeto, sforzo comprensibile e che deve essere compreso nel suo buon fine ultimo. Ma, probabilmente, sforzo inutile.
Già, mi rendo conto che le riflessioni che seguiranno disturberanno qualche liturgista, qualche pastore, forse qualche Eccellenza o Eminenza; quello che chiedo è di seguire la riflessione e meditarla un poco prima di pronunciarsi contro di essa. Bisogna anche dire le cose che non piacciono e che disturbano, se si vuole essere fedeli alla propria coscienza (a cui san John Henry Newman brindava, non dimentichiamolo).
Talvolta, abbiamo la pretesa di possedere Dio. Ecco un pensiero di Divo Barsotti che ci si offre come riflessione su questo:
“Come puoi cercare Dio? Se tu lo cerchi, lo neghi. Come puoi pretendere di custodirlo nel cuore con cura gelosa? Se tu vuoi possederlo per te, se tu credi di difendere la tua ricchezza interiore già non possiedi più nulla: la tua regola, i tuoi sforzi, i tuoi esercizi non liberano la tua vita da una sterilità triste e pesante. Dio è Colui che si dà prima di esser cercato, che è posseduto mentre si dona perché Egli è l’Amore” (La fuga immobile, p. 171).
Che brutto tiro: se tu lo cerchi, lo neghi. Ma che vuol dire? Noi non andiamo alla Messa per cercare Dio? Forse. O forse no? Anzi, molto probabilmente, no. Infatti, noi non andiamo alla Messa, noi siamo convocati alla Messa. Non siamo noi che andiamo da Lui, ma è Lui che ci convoca. Cosa significa? La Messa non è un atto quotidiano, come andare al mercato o alla posta, la Messa è un gesto che viene dall’eterno e che deve vivere e nutrirsi di quella atmosfera di eterno. Non possiamo “mondanizzare” la liturgia come se essa ci appartenesse; neanche la Chiesa può stravolgere la liturgia venenendo meno al mandato divino ricevuto di custodire e predicare. A noi non interessano le idee particolari di questo o quel prelato, ma che essi facciano tutto secondo l’intenzione della tradizione costante della Chiesa.
Non siamo noi a fare la Messa ma è la Messa che fa noi. Quindi, quando si insiste troppo sulla propria cultura, quotidianità, esperienza, anche se si ha uno scopo positivo, in un certo modo, e non inessenziale, si tradisce lo spirito della Liturgia. La “musica dell’oggi” è buona per l’oggi, non per l’eterno. La musica per la liturgia non dovrebbe essere qualcosa che noi “diamo” a Dio, ma un’interfaccia fra noi e l’Altro. Una frase di Jean Thamar (pseudonimo usato dal diplomatico svizzero Jacques-Albert Cuttat) e ripresa da Jacques Viret in un suo testo del 2012, ci informa che “un canto gregoriano, per esempio, sembra riempire l’universo, mentre una messa orchestrata non riempie che la chiesa”. Il canto gregoriano è canto cosmico.
Gesù stesso ci offre una chiave interpretativa di questo quando dice “Prima che Abramo fosse io sono” (Gv 8, 58). Egli è l’eterna presenza, noi rischiamo di storicizzare tutto in modo che farebbe molto felice Hegel, probabilmente, ma non molto felice per il bene spirituale dei cristiani. Certo, Dio è vissuto nella storia, ma non è la storia. Egli è sopra la storia, Egli è oltre la storia.
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