Un prete canta i successi dell'ultimo Sanremo durante la Messa, viene rilanciato da Gianni Morandi sui social e ottiene il suo quarto d'ora di celebrità televisiva: si chiama pure don Matteo.
Niente di male né di grave, intendiamoci. Anzi, ha persino strappato un sorriso quando si è inerpicato sulle note per intonare dal pulpito «brividi, brividii, brividiii», attribuendoli a un dialogo immaginario tra San Pietro e San Remo (che peraltro non esiste) su cui Fiorello potrebbe campare per anni.
Niente di grave, ripeto. Ma è sulla motivazione del prete canterino che avrei qualcosa da eccepire, là dove afferma di averlo fatto per avvicinarsi ai giovani. È la frase più conservatrice che si possa sentire, nel senso che mi risuona falsa nelle orecchie fin da quando «i giovani» ero io. Da Bach a Mozart, un tempo erano i musicisti che componevano per i preti, non i preti che scimmiottavano i musicisti.
La Chiesa si limitava a fornire la materia prima: il senso del sacro, quello di cui i ragazzi hanno più fame, e basta affacciarsi a un qualsiasi convegno ad argomento spirituale per trovarli nelle prime file.
Ma davvero qualcuno crede che lo svuotamento delle chiese dipenda dalla musica d'organo e non piuttosto dall'evanescenza di certe omelie? Al di là del concertino di don Matteo, non so quanto sia giusta questa idea che, per piacere ai giovani, si debba fare qualcosa che i giovani fanno meglio degli adulti, anziché qualcosa che loro non sanno fare e si aspettano proprio dagli adulti.
(Dal Corriere della Sera)