Vi sarà capitato di far notare timidamente al vostro parroco che certe sue iniziative in merito alla liturgia e alla musica sacra sono in effetti non congruenti con la prassi tradizionale della Chiesa.
Eppure, malgrado tutti gli sforzi, vi viene sempre risposto che tutto è cambiato dopo il Concilio Vaticano II. Così dovreste domandare se la Chiesa dopo il Vaticano II è la stessa che quella prima del Vaticano II. La risposta ovvia dovrebbe essere che lo è, ma non per il vostro parroco.
Egli vi ripete la solita tiritera per cui il Concilio è stato l’evento epocale, la nuova primavera, il momento che ha cambiato il corso della storia della Chiesa. Eppure se c’è stata una “nuova primavera”, c’è ne deve essere stata anche una vecchia.
Comunque è utile dare un’occhiata proprio si documenti del Vaticano II, per esempio quello per la liturgia chiamato Sacrosanctum Concilium. In esso, al punto 4, i padri conciliari fanno riferimento alla loro obbedienza alla “santa tradizione”, non vi è nessun discorso che fa pensare ad un improbabile nuovo inizio della Chiesa. E non potrebbe essere altrimenti, perché un nuovo inizio ci darebbe un’altra Chiesa e non quella a noi tramandata dai tempi apostolici.
Ma come, dite al vostro parroco, si parla tanto che dobbiamo tornare ad essere come nella Chiesa primitiva e poi ci dite che dopo il Vaticano II c’è stato un nuovo inizio? Non la percepite la contraddizione?
Certamente l’aveva percepì a Benedetto XVI che bel suo celebre discorso alla curia romana del 2005 metteva in guardia contro coloro che portavano avanti una ermeneutica del Concilio del tutto errata: “Emerge la domanda: Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile? Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o – come diremmo oggi – dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione. I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L'una ha causato confusione, l'altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti. Da una parte esiste un'interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall'altra parte c'è l'“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino. L'ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare”. Ecco, lo aveva detto molto chiaramente Benedetto XVI, sulla linea anche degli studi in questo senso del cardinale Agostino Marchetto e di tanti altri autorevoli studiosi.
Nessun nuovo inizio, semmai un nuovo impulso alla Chiesa di sempre. Se questo impulso sia stato benefico, lo lascio a voi giudicare.