Quando si intraprende una ricerca in campo scientifico ed umanistico è sempre bene basarsi sul consenso che su un dato argomento viene fornito dalle autorità, con questa parola intendendo le testimonianze di fonti ritenute altamente affidabili su un certo tema. Detto questo non bisogna troppo esagerare la nostra “devozione” per gli esperti perché certamente anche loro possono prendere cantonate. Comunque non è male consultare quelle fonti che alla luce degli sviluppi storici successivi sembrano essere le più affidabili.
Per la liturgia, questo argumentum ab auctoritate si estrinseca con l’osservazione dello sviluppo organico della stessa, dalle prime testimonianze sino ai recenti sviluppi. Cioè, si vede quello che si ha e si risale alla sua fonte storica, mentre è più pericoloso andare a pescare nelle “origini” quello che non si ha per riprodurlo nel presente come se secoli di storia liturgica non avessero significato nulla. Questo atteggiamento venato di giansenismo è stato non poco usato negli ultimi decenni, in cui un certo archeologismo ha invaso le varie riforme liturgiche. Se ne preoccupò Pio XII nella Mediator Dei, un testo che per altri versi incoraggia il movimento liturgico allora in pieno svolgimento. In un certo punto si parla di “archeologismo”, appunto, e si offre questa valutazione: “È certamente cosa saggia e lodevolissima risalire con la mente e con l'anima alle fonti della sacra Liturgia, perché il suo studio, riportandosi alle origini, aiuta non poco a comprendere il significato delle feste e a indagare con maggiore profondità e accuratezza il senso delle cerimonie; ma non è certamente cosa altrettanto saggia e lodevole ridurre tutto e in ogni modo all'antico. Così, per fare un esempio, è fuori strada chi vuole restituire all'altare l'antica forma di mensa; chi vuole eliminare dai paramenti liturgici il colore nero; chi vuole escludere dai templi le immagini e le statue sacre; chi vuole cancellare nella raffigurazione del Redentore crocifisso i dolori acerrimi da Lui sofferti; chi ripudia e riprova il canto polifonico anche quando è conforme alle norme emanate dalla Santa Sede. Come, difatti, nessun cattolico di senso può rifiutare le formulazioni della dottrina cristiana composte e decretate con grande vantaggio in epoca più recente dalla Chiesa, ispirata e retta dallo Spirito Santo, per ritornare alle antiche formule dei primi Concili, o può ripudiare le leggi vigenti per ritornare alle prescrizioni delle antiche fonti del Diritto Canonico, così, quando si tratta della sacra Liturgia, non sarebbe animato da zelo retto e intelligente colui il quale volesse tornare agli antichi riti ed usi ripudiando le nuove norme introdotte per disposizione della Divina Provvidenza e per le mutate circostanze. Questo modo di pensare e di agire, difatti, fa rivivere l'eccessivo ed insano archeologismo suscitato dall’illegittimo concilio di Pistoia, e si sforza di ripristinare i molteplici errori che furono le premesse di quel conciliabolo e ne seguirono con grande danno delle anime, e che la Chiesa, vigilante custode del «deposito della fede» affidatole dal suo Divino Fondatore, a buon diritto condannò. Siffatti deplorevoli propositi ed iniziative tendono a paralizzare l'azione santificatrice con la quale la sacra Liturgia indirizza salutarmente al Padre celeste i figli di adozione”. Insomma, il Papa era stato ben chiaro su questo punto, studio dello sviluppo organico, non tentativo di manipolazione genetica. Non bisogna andare alla ricerca di un passato mitico, ma osservare lo sviluppo organico che ci riporta alle cose antiche che spiegano quelle recenti.
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