Poiché la Chiesa ha ricevuto da Cristo, suo Fondatore, il mandato di tutelare la santità del culto divino, essa ha certamente il compito di comandare — fatta salva la sostanza del sacrificio e dei sacramenti — su tutto ciò che riguarda il perfetto svolgimento di tale augusto, pubblico ministero, come cerimonie, riti, formule, preghiere e canto; cioè, su tutto ciò che è chiamato propriamente con il nome di Liturgia, o azione sacra per eccellenza. E la Liturgia, in effetti, è cosa sacra.
Per mezzo di essa, infatti, veniamo elevati ed uniti a Dio, testimoniamo la nostra fede e ci uniamo a Lui nello strettissimo dovere di riconoscenza per i benefìci e gli aiuti di cui sempre abbisogniamo. Da qui l’intimo legame che intercorre fra il dogma e la sacra liturgia, come fra il culto cristiano e la santificazione del popolo. Per tale motivo Celestino I riteneva che il canone della fede si trovava espresso nelle venerande formule della liturgia. In proposito egli afferma: « La legge della preghiera determina la legge della fede. Infatti, quando i presuli delle sante assemblee adempiono alle funzioni loro affidate, essi sostengono davanti alla clemenza divina la causa del genere umano e pregano e supplicano con tutta la Chiesa che geme con loro » (Epist. ad episcopos Galliarum, Patrol. Lat., L, 535).
Tali preghiere collettive, chiamate dapprima opus Dei e successivamente officium divinum, come una specie di debito da soddisfare quotidianamente a Dio, una volta si effettuavano di notte e di giorno con grande partecipazione dei fedeli.
Ed è meraviglioso constatare quanto fin dagli antichi tempi quelle ingenue litanie, che accompagnavano le sacre preci e l’azione liturgica, contribuivano ad alimentare nel popolo il fervore religioso. Infatti, principalmente nelle vecchie basiliche, dove il vescovo, il clero e il popolo alternavano le lodi divine, i canti liturgici contribuirono a far sì che un grande numero di barbari abbracciasse il cristianesimo e la nostra civiltà, come la storia insegna. Fu nei templi che gli avversari del cattolicesimo impararono a conoscere più a fondo il dogma della comunione dei santi. Fu così che l’imperatore Valente, ariano, rimase quasi tramortito davanti alla maestà dei divini misteri celebrati da San Basilio; e a Milano gli eretici accusavano Sant’Ambrogio di ammaliare le folle con i canti liturgici: quegli stessi canti che colpirono Agostino al punto da indurlo ad abbracciare la fede di Cristo. Più tardi fu nelle chiese, dove quasi tutta la cittadinanza si riuniva come in un immenso coro, che gli artigiani, gli architetti, i pittori, gli scultori e gli stessi letterati appresero dalla liturgia quelle cognizioni teologiche che oggi risplendono meravigliosamente nei monumenti del medioevo.
Da questo si comprende perché i Romani Pontefici ebbero così grande sollecitudine nel tutelare e custodire la liturgia sacra; e, come usarono tanta cura nell’esprimere il dogma con precise parole, così si studiarono di mettere in ordine le sacre norme della liturgia, difendendole e preservandole da ogni alterazione.
E così pure comprendiamo perché i Santi Padri hanno tanto commentato la liturgia (cioè la legge della preghiera) a viva voce e per iscritto, e perché il Concilio Tridentino ha voluto che essa fosse esposta e spiegata al popolo cristiano.
Relativamente ai nostri tempi moderni, Pio X, nel promulgare venticinque anni fa, con Motu proprio, le norme che regolano il canto gregoriano e la musica sacra, si propose come scopo precipuo di far rifiorire e mantenere nei fedeli lo spirito cristiano, provvedendo con sagge disposizioni a rimuovere quanto potesse contrastare con la santità e la dignità del tempio. Infatti i fedeli si radunano nei luoghi sacri per attingervi la pietà come a prima e principale fonte, partecipando attivamente ai venerandi misteri della Chiesa e alle solenni pubbliche preghiere.
È dunque molto importante che tutto ciò che è destinato alla bellezza della liturgia sia regolato da leggi e prescrizioni della Chiesa, in modo che le arti servano veramente, come è doveroso, quali nobili ancelle al culto divino. E ciò non tornerà a loro detrimento, ma anzi conferirà maggiore dignità e splendore in quanto utilizzate in luoghi sacri. Ciò si è riscontrato in modo meraviglioso a proposito della musica. In verità, ovunque le regole sono state applicate con cura, ivi si è avuto, unitamente al risorgere delle più elette forme dell’arte, anche un diffuso rifiorire dello spirito religioso in quanto il popolo cristiano,compenetrato da un più profondo sentimento liturgico, si abituò a partecipare più attivamente al rito eucaristico, alla sacra salmodia e alle preghiere pubbliche. Noi stessi ne avemmo una consolante conferma quando, nel primo anno del Nostro Pontificato, un coro immenso di chierici, di ogni nazione, accompagnò con le melodie gregoriane la solenne liturgia da Noi celebrata nella Basilica Vaticana.
Tuttavia Ci spiace rilevare che quelle sapientissime leggi non sono state applicate dappertutto, e pertanto non sono stati ottenuti i frutti desiderati. Sappiamo infatti che alcuni hanno affermato di non essere tenuti all’osservanza di quelle leggi, le quali erano state così solennemente emanate; che altri, dopo una prima adesione, insensibilmente sono tornati a permettere un certo genere di musica che deve essere del tutto proscritta dal tempio; e che infine in qualche luogo, specialmente in occasione di centenarie commemorazioni di illustri musicisti, si cercava pretesto per eseguire composizioni, le quali quantunque ragguardevoli, non rispondendo però né alla maestà del luogo sacro né alla santità delle norme liturgiche, non si dovevano assolutamente eseguire in chiesa. (Dalla Bolla Divini Cultus, 1928)