Un articolo del 30 settembre scorso, a firma di Giacomo Gambassi su Avvenire, ha riproposto il tema dell’abbandono delle Messe da parte di sempre più fedeli. L’articolo è interessante anche perché riporta delle dichiarazioni del vescovo di Mantova, Gianmarco Busca, voce autorevole in questo senso, in quanto presidente della Commissione episcopale della Cei (Conferenza episcopale italiana) per la liturgia, l’organo da cui ci si aspetterebbe delle soluzioni concrete ad un problema che non può essere negato, quello della perdita di interesse di molta, troppa gente non tanto verso la liturgia in sé, ma piuttosto verso la fede in generale.
Non ci si può che rallegrare del fatto che non si cerchino le solite circonlocuzioni per far apparire una cosa evidente (l’abbandono dei fedeli) come una cosa diversa. L’articolo cita una statistica della testata online dei dehoniani, Settimana News, in cui viene chiaramente affermato che la pratica religiosa è in forte ribasso e che nella (ex) cattolica Italia solo il 19% della popolazione partecipa alle celebrazioni liturgiche almeno una volta a settimana.
Dunque, viene chiaramente detto che i fedeli stanno abbandonando la pratica religiosa, sebbene non vengano indicate altrettanto chiaramente alcune ragioni per cui questo sta accadendo: la liturgia sfigurata e preda di ogni genere di abuso; la musica sacra autentica estromessa dalle celebrazioni; riti dove non si percepisce affatto il senso del soprannaturale. Invece il vescovo di Mantova comincia con un’affermazione un poco strana, cioè dice che l’esperienza ecclesiale non viene esaurita entro i confini del rito; anche l’esperienza educativa, per fare un esempio, non si esaurisce nei confini delle scuole, ma sarebbe questa una giustificazione per dar conto dell’abbandono delle stesse?
Poi monsignor Busca ci pone una domanda: «Dovremmo chiederci: chi si è allontanato da chi? È la gente che si è allontanata dalla Chiesa o da determinate ritualità; oppure è la Chiesa che si è allontanata dalle persone perdendo in parte la sua capacità di incontro nel nome del Vangelo? Comunque spesso siamo di fronte a comunità con legami fragili, con appartenenze deboli e talvolta anche con uno stile di fraternità a velocità variabile». Sembra che così si metta più l’enfasi sulla comunità e la sua formazione piuttosto che sulla necessità che il rito stesso abbia una sua qualità. Si dovrebbe dire che la Chiesa si è allontanata dai fedeli quando, invece di parlargli con i linguaggi dell’adorazione di Dio, della bellezza, della sacralità, come ha fatto nel corso della sua storia, gli ha ammannito i rimasugli delle mode, le omelie strampalate, i preti intrattenitori, le musiche dozzinali. Ecco, questo centra abbastanza il problema.
Il vescovo di Mantova, riferendosi alle sintesi diocesane giunte a Roma per il Cammino sinodale della Chiesa italiana, parla di «qualità un po’ deludente delle celebrazioni» (un po’?), «anonimato delle liturgie» (?), «gestione clericale dei riti» (ma se ai laici viene fatto fare di tutto…), «divario fra liturgia e vita». Quest’ultimo punto è interessante, perché mons. Busca dice, specie a proposito delle omelie, che «in molti hanno manifestato il proprio malessere di fronte a riflessioni che non hanno una lingua materna e non riescono a sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda spirituale che si irradia nelle nostre città». Il problema non è che la liturgia non si sintonizzi sulla vita delle persone, ma che essa oggi non sia quella soglia per cui le persone si sintonizzino sulla vita soprannaturale così da avvertire la presenza di Dio.
Il vescovo cerca di trovare spiegazioni, ma, accanto ad alcune osservazioni condivisibili, rincorre anche alcuni luoghi comuni, come quello del “meno Messe, più Messa”: «Succede che si tenga un’Eucaristia domenicale per otto persone e l’ora successiva per altre quindici. Moltiplicare le Messe e smembrare l’assemblea è contrario alla natura dell’Eucaristia che implica il “convergere in uno”. E la quantità rischia di andare a discapito della dignità liturgica». Quindi, secondo questa mentalità che si centra sulla comunità piuttosto che sul valore intrinseco di ogni Messa celebrata, per risolvere i problemi della liturgia bisognerebbe diminuire le Messe, anche se laddove questo è stato fatto non ha convinto le persone a “convergere in uno”.
Andiamo alla musica sacra. Ecco cosa dice il vescovo a proposito del canto e anche dell’arte: «Non sono elementi accessori ma parte della liturgia stessa. Essi indicano come la lode a Dio si avvalga anche di leve culturali diversificate. Perché culto e cultura vanno di pari passo». La prima frase è sacrosanta, la musica non è un orpello del rito, ma poi non si comprende bene quale sarebbe la soluzione proposta parlando di «leve culturali diversificate» e come si parli di culto e cultura che vanno di pari passo senza però specificare che un tempo era il culto a fare cultura e non a subirla.
Ci vorrebbe un poco di coraggio per evitare di continuare a non voler vedere che la medicina che viene data all’ammalato non lo ha guarito, ma lo ha fatto ammalare ancora di più, ci vorrebbe veramente una svolta coraggiosa per far capire che le persone che negli uffici liturgici, nelle conferenze episcopali, nelle università pontificie, vengono ritenute una soluzione al problema liturgico non lo sono, anzi sono parte del problema. Nei sacri palazzi ci si indigna per coloro che ancora cercano rifugio nella Messa tradizionale senza però affrontare con coraggio tutto quello che quella situazione ha fatto nascere e, in alcuni casi, prosperare.