Pensavo a San Carlo Borromeo e al suo motto, “Humilitas”. Questo grande santo, che ha partecipato anche al Concilio tridentino, aveva tutti i motivi per non essere umile, proveniendo da un famiglia ricca e potente. Eppure scelse questo motto per se, “Humilitas”. Ma questa umiltà non lo allontanava dal difendere i diritti della sua dignità episcopale e della Chiesa stessa.
In un testo del salesiano Mario Scudu leggiamo:
“La sua visita in una parrocchia era preparata spiritualmente con la preghiera e con la predicazione che doveva portare ai sacramenti. Il vescovo all’inizio faceva una riunione con i notabili del paese ai quali chiedeva tra l’altro: “Come si comportano in chiesa i parrocchiani? Ci sono eretici, usurai, concubini, banditi o criminali? Ci sono seminatori di discordia, parrocchiani che non osservano la Quaresima?... I padri di famiglia educano bene i propri figli? Non c’è lusso esagerato nel vestire da parte degli uomini e delle donne? Se ci sono delle istituzioni di beneficenza e di aiuto sociale, sono ben amministrate?”. E altre domande simili. Come si vede concrete. Tutto bene quindi nella sua opera di riforma? Non proprio. Incontrò difficoltà e talvolta anche ostilità. Come nel caso dell’attentato che subì il 26 ottobre 1569 ad opera di quattro frati dell’Ordine degli Umiliati. Uno di questi gli sparò mentre era in preghiera nella sua cappella privata. Motivo? Il Borromeo voleva riformare quell’ordine religioso ormai decaduto. Ma le riforme proposte furono viste dagli Umiliati come umiliazioni. La pallottola gli forò il rocchetto, ma lui rimase illeso miracolosamente ed il popolo lo interpretò come un segno dall’alto della bontà delle sue riforme. E gli Umiliati, di nome, furono umiliati anche di fatto e per sempre con la loro cancellazione definitiva”.
Insomma, il testo del padre Scudu ci dice qualcosa di molto importante: umiltà non significa arrendersi, ma capire che si è personalmente solo degli indegni peccatori. Solo questa consapevolezza può fare avere una forza ancora più grande di quella di coloro che pensano di essere già forti.
Nella seconda lettera ai Corinzi (12, 7-10) lo dice benissimo San Paolo:
“Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia. A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l'allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte”.
L’umiltà di san Carlo Borromeo era la vera umiltà, non quella dei cosiddetti forti (gli Umiliati, ad esempio) che possono solo ricorrere alla violenza quando capiscono la propria inadeguatezza. Umiltà, lo dice la parola, è essere vicini alla terra, come del resto è nella parola “uomo”. Quindi essere uomo significa essere umile, stare in basso, ma non essere piegato. Significa essere consapevoli della propria debolezza, della propria inadeguatezza e proprio per questo trovare la forza nella grazia per poter difendere i diritti calpestati ed affrontare le proprie responsabilità. Forse le esperienze dure della vita, come le malattie, ci richiamano proprio a questo rimanere ancorati alla terra, alla umiltà primigenia della nostra condizione mortale.
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