È stato singolare per me leggere il programma della celebrazione liturgica per ricordare l’inizio del Concilio Vaticano II del giorno 11 ottobre 2022. È stato singolare perché conosco il programma che fu eseguito nel 1962 dal coro della Cappella Sistina diretta dall’indimenticato Domenico Bartolucci. Oggi c’è ancora il coro della Cappella Sistina, ma il Maestro (e Cardinale) Domenico Bartolucci è venuto purtroppo a mancare nel 2013. Il programma di allora vedeva l’esecuzione di mottetti di Palestrina e Bartolucci, canto gregoriano e dello stesso Palestrina la monumentale Missa Papae Marcelli. Bartolucci compose un mottetto per l’occasione, Exaudi nos Domine.
Oggi come facciamo memoria? Sostanzialmente smemorandoci. Alla presenza del Pontefice vengono eseguiti più o meno i canti che si potrebbero seguire in ogni parrocchia di medio livello, da Salga da questo altare a Quanta sete nel mio cuore, la grande polifonia è quasi completamente sparita insieme con il latino. Come introduzione alla celebrazione vengono offriti testi per la meditazione, come brani del discorso di Giovanni XXIII all’apertura del Concilio e un passo dalla Lumen Gentium. Non mi sorprende che alcune cose non vengano citate, come Sacrosanctum Concilium, per esempio questo passo: “La tradizione musicale della Chiesa costituisce un patrimonio d'inestimabile valore, che eccelle tra le altre espressioni dell'arte, specialmente per il fatto che il canto sacro, unito alle parole, è parte necessaria ed integrante della liturgia solenne. Il canto sacro è stato lodato sia dalla sacra Scrittura [42], sia dai Padri, sia dai romani Pontefici; costoro recentemente, a cominciare da S. Pio X, hanno sottolineato con insistenza il compito ministeriale della musica sacra nel culto divino. Perciò la musica sacra sarà tanto più santa quanto più strettamente sarà unita all'azione liturgica, sia dando alla preghiera un'espressione più soave e favorendo l'unanimità, sia arricchendo di maggior solennità i riti sacri. La Chiesa poi approva e ammette nel culto divino tutte le forme della vera arte, purché dotate delle qualità necessarie”. Di questo ovviamente non si parla più.
Poi io non capisco (ma sicuramente è colpa mia) perché la Messa deve essere fatta in Italiano, e lo dico da Italiano. Ma se c’è oramai questa tendenza a delocalizzare tutto nella Chiesa, come mai che proprio in un occasione così solenne, un’occasione in cui si celebra un evento che non pochi vedono come uno dei più importanti per la Chiesa universale, si diviene così localisti? Già sento le obiezioni. Una è che la gente non capirebbe il Latino; ma perché, capiscono l’Italiano al di fuori del nostro paese? Si dirà allora che essendo il Vaticano a Roma la gran parte delle persone che partecipano alla cerimonia sono Italiane. Ma per quello che capisco (e mi potrei sbagliare ancora) a san Pietro è riunita la Chiesa universale sotto il suo Pastore, non la Conferenza Episcopale Italiana. Poi si fanno tutti questi discorsi sul rendere la Chiesa più universale e proprio dove essa dovrebbe mostrare questa caratteristica nel modo più solenne si danno dei privilegi a noi Italiani? E questo non è che ci fa più cattolici, perché anzi la gente si allontana sempre più dalla Chiesa e, pure se ripetono gli stessi canti da 60 anni, se non vuole cantare, non canta. Se ne facessero una ragione.
(Da Duc in altum)