Non credo sia necessario affermare che il Concilio Vaticano II è stato uno spartiacque nella storia della Chiesa. Del resto chi non capisce questo non può capire neanche il moderno tradizionalismo, che reagisce al Concilio come un tempo i “Cattolici integrali” alla Mons. Benigni reagivano al modernismo. C’è certamente un prima e un dopo nel Concilio e certamente su questo prima e questo dopo fioccano diverse interpretazioni, da quelle del Concilio come rottura e nuovo inizio ad altre che lo vedono come continuità con la tradizione precedente.
Un’idea di questo può essere offerta anche osservando quello che accadde in quel piovoso 11 ottobre del 1962, quando il mondo osservava l’incedere dei Vescovi in unione con il Papa per quella che sarà una fastosissima cerimonia, sia come rito che come musica. A coloro che volevano innovare a tutti i costi questo non piaceva; il gesuita Josef Jungmann dirà con sarcasmo che la cerimonia era andata bene ma si era ancora nello stile di Leone XIII. Giudizi sprezzanti venivano dati da altri partecipanti anche verso il coro della Cappella Sistina, che cantava per la cerimonia. Non è falso dire che la musica eseguita rifletteva un mondo che oggi possiamo definire preconciliare (ma non nel senso peggiorativo che spesso si dà a questa parola).
In effetti per l’apertura era stato approntato un programma musicale importante dal direttore Domenico Bartolucci (poi Cardinale), musicista di enorme rilievo per la storia della musica sacra del secolo passato. Le parti del Proprio erano in gregoriano, le parti dell’ordinarium missae erano quelle della monumentale Missa Papae Marcelli di Giovanni Pierluigi da Palestrina, e poi altri mottetti a 4, 5 o 6 voci arricchirono la cerimonia, tra cui un Exaudi nos Domine che il Bartolucci aveva scritto per l’occasione. Non sono sicuro se l’insigne maestro toscano pensò che in quell’occasione Dio effettivamente esaudì i suoi desideri per una liturgia ricca di bellezza, perché in seguito egli sarà uno dei critici più feroci della riforma liturgica. Del resto la lezione l’aveva imparata già nel Concilio stesso, in quanto la Messa di chiusura offriva possibilità alla musica ben diverse da quelle della Messa di apertura.
E non dimentichiamo che accanto a coloro che sapevano apprezzare quello che accadeva quell’11 ottobre, non mancavano i critici che nel proprio diario o in altro modo fecero conoscere il loro disappunto per quel modo di essere Chiesa che il domenicano Yves Congar definiva come ancora troppo “costantiniana”. Critici come il Vescovo belga Jean Baptist Musty che pur apprezzando la cerimonia si risentiva della mancanza di partecipazione in quanto tutto era cantato in polifonia. O anche il domenicano Marie-Michel Labourdette che si rammaricava per il Credo cantato in polifonia piuttosto che da tutti i presenti e del fatto che non ci fosse stata una concelebrazione. Commentando sul programma musicale ancora il Congar (che definiva la Cappella Sistina “un coro operistico”) diceva che esso rifletteva il fatto che il movimento liturgico non aveva raggiunto la curia romana.
Insomma, quegli anni ‘62-‘65 saranno un periodo in cui non sembrerà di aver assistito al passaggio di 3 anni, ma di secoli tanto furono profondi i cambiamenti non solo in campo liturgico e musicale, ma per la vita della Chiesa stessa.
(Da Stilum Curiae)