Mi è capitato tempo fa di avere una conversazione in Skype con il cardinale Joseph Zen di Hong Kong. Dovete sapere che il cardinale Zen ama molto il canto gregoriano, che ha ampiamente praticato in gioventù e anche insegnato. Prima di interrompere la nostra comunicazione, mi ha augurato buona festa di Pentecoste e si è messo a canticchiare la sequenza Veni Sancte Spiritus, che nel Messale si canta prima dell’acclamazione al vangelo. Forse dovrei dire “si dovrebbe cantare”, visto che è così raro oramai ascoltare questi capolavori di canto liturgico nelle nostre celebrazioni. Questo non solo per la Pentecoste, ma anche per il Corpus Domini o per Pasqua; ci si accontenta di leggere delle versioni italiane di porzioni di queste sequenze (nel caso di Lauda Sion Salvatorem) con tono monotono e poco convinto. Eppure questi sono gioielli di preghiera.
Il genere della sequenza fiorì e traboccò in epoca medievale, tanto che c’erano migliaia di Sequenze per ogni occasione poi ridotte a cinque:
“Dopo la riforma del concilio di Trento rimasero in uso, delle circa 5000 sequenze conosciute, solo le seguenti: Victimae Paschali laudes per il giorno di Pasqua, Veni Sancte Spiritus per la Pentecoste, Lauda Sion Salvatorem per il Corpus domini, Dies irae, dies illa per la messa dei defunti; una quinta, Stabat Mater dolorosa per il venerdì santo, fu introdotta nella liturgia da Benedetto XIII nel 1727” (treccani.it).
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